5 novembre 2020

 " «Nothing happens» era la risposta che il XVI Karmapa Rangjung Rigpe Dorje dava quando qualcuno gli chiedeva cosa succede quando moriamo.

Era il solstizio d’estate del 1980 ed eravamo negli Stati Uniti, in Colorado, quando il Karmapa salutandoci disse: «Tornate il primo giorno dell’undicesimo mese del prossimo anno», precisando che si stava riferendo al calendario occidentale e non a quello tibetano. Sconcertati, capimmo solo molto più tardi perché ci tenesse lontano da lui per un po’ di tempo; eravamo i suoi principali studenti tra i freschi, nuovi buddhisti dell’Occidente, e soprattutto io, insegnante da lui incaricato, ero adatto a rappresentarlo nella sua veste di eroe del momento, così possente e radioso come lo avevamo conosciuto fino ad allora2. Poi aggiunse: «Potete portare i vostri amici». E così successe che Hannah e io con oltre un centinaio di persone viaggiammo nelle zone himalayane mentre gli eventi che sto per descrivere accadevano in un ospedale americano vicino a Chicago. 

Il Karmapa impressionò profondamente sia i suoi studenti sia i rappresentanti della scienza occidentale con la sua morte, e questo non sorprende dato che era “il Re degli yogi”; già nell’arco della sua esistenza il XVI Karmapa Rangjung Rigpe Dorje, così come le sue precedenti incarnazioni, personificava la forza attiva di tutti i buddha.

Nato nel Tibet orientale nel 1924, nel 1959 con una fuga degna di nota dalla madrepatria salvò la trasmissione e le reliquie più importanti del suo lignaggio dai cinesi che stavano attaccando. Con lo scopo di fornire una base per la continuazione degli insegnamenti della “vecchia scuola” del Tibet, come prima cosa, tra il 1961 e il 1965, costruì il grande centro a Rumtek, in Sikkim. Poi, diverse volte negli anni tra il 1973 e il 1981 visitò con i suoi studenti il Nord America e l’Europa, dove la sua grande apertura verso il Buddhismo laico si solidificò. Salvò le trasmissioni della scuola Kagyü grazie a insegnamenti, cerimonie della Corona Nera e iniziazioni che dava di frequente nei periodi in cui non viaggiava e rimaneva in Sikkim. 

A metà ottobre 1981, già molto malato, accettò un invito a recarsi prima a Hong Kong e poi negli Stati Uniti, di certo per benedire una volta di più l’Occidente dove aveva predetto maggiori sviluppi per i suoi insegnamenti, e per mostrare al mondo gli effetti della Via di Diamante. Morì a causa di una mezza dozzina di malattie mortali, in un ospedale vicino a Chicago. Era il 5 di novembre.

Aveva invitato Hannah e me a Rumtek per il primo novembre, e lì arrivò il suo corpo qualche giorno più tardi, in elicottero. Il 20 dicembre 1981 fu cremato e accaddero tutti quei miracoli che ho descritto nel mio libro “Oltre tutte le frontiere”.

Regalò alla scienza gli ultimi diciotto giorni della sua vita e lasciò che i medici impiegassero su di lui i trattamenti più forti. All’inizio il dottor Levy – lui stesso un buddhista – era ancora meravigliato che il suo paziente non si lamentasse mai del dolore e nonostante la grave malattia fosse interessato alla felicità altrui; irradiava sempre un amore potente e radioso, si preoccupava che i medici e le infermiere stessero bene e faceva delle battute. Più a lungo lo assistevano, più ne rimanevano colpiti, e man mano che la sua morte si avvicinava erano costretti a mettere in discussione totalmente la loro visione del mondo medico. Per le persone coinvolte si trattava di un insegnamento costante a proposito di ciò che una mente forte e unidirezionata rende possibile. Il dottor Levy, per esempio, aveva la sensazione che il Karmapa ritardasse deliberatamente la morte per fare in modo che tutti ne prendessero conoscenza, ne osservassero il processo e imparassero da essa. Era palese: viveva il suo corpo come se fosse uno strumento e facendo così voleva insegnare qualcosa ai suoi studenti e al mondo. 

Mantenne la sua preoccupazione per gli altri anche in questa situazione e fino all’ultimo. Per i medici e il personale infermieristico era cosa insolita: invece che essere loro ad assistere un paziente indigente, debole e bisognoso di aiuto, era lui a essere sempre orientato in modo amorevole verso tutti. La sua radiosità e il suo calore rimasero del tutto inalterati e travolgevano i visitatori e lo staff dell’ospedale, perfino quando il suo corpo stava diventando evidentemente più debole e, infine, stava morendo. Di solito il personale di un reparto di cure intensive evita un rapporto stretto con i pazienti al fine di operare in modo professionale, ma con il Karmapa era tutto diverso: ognuno era profondamente commosso. Il suo stato mentale aveva una forza incredibile e un’inamovibilità che s’irradiavano su ciascuno di loro e che nessuno si spiegava. La sua presenza non lasciava indifferente nessuno, e semplicemente non riuscivano a capire come potesse il Karmapa, malgrado il dolore, comportarsi in modo molto diverso rispetto a quanto fanno i morenti di solito.

         Dopo alcuni giorni la condizione del Karmapa peggiorò drasticamente, aveva difficoltà respiratorie, tossiva sangue e la pressione arteriosa crollò con rapidità. Da una prospettiva medica questi erano i segnali di una morte imminente, e dunque il dottor Levy chiese ai detentori del lignaggio presenti di fare l’ultima visita al Karmapa. Malgrado ciò, quarantacinque minuti più tardi uscendo dalla stanza, totalmente rilassati, gli riportarono che il Karmapa aveva riso della loro “visita di commiato” spiegando di buon umore che ancora non aveva in programma di morire. Il dottor Levy entrò nella stanza per trovare il Karmapa seduto dritto nel letto, gli occhi aperti, che gli chiedeva come stava. Nel giro di mezz’ora aveva smesso di sanguinare, i suoi valori vitali erano ritornati stabili e a livelli normali; la sua volontà era evidentemente così forte da permettergli di determinare quando lasciare il corpo. E quello non era ancora il momento.

        Dieci giorni più tardi la pressione sanguigna precipitò di nuovo e improvvisamente e non fu possibile stabilizzarla neanche con i farmaci. Mentre tutti i segni ancora una volta puntavano alla morte di lì a pochi minuti e i medici lottavano per la sua vita, il Karmapa sorrideva in modo amichevole; due ore dopo, seduto dritto nel letto, con la pressione del sangue tornata a livelli di normalità, chiacchierava con i medici.

Nessuno in quell’ospedale aveva mai visto nulla del genere: un paziente malato di cancro allo stadio terminale e con un’enorme infiammazione ai polmoni non si riprende più, e di certo non si siede dritto a letto, ristabilito, sorridente e con atteggiamenti amichevoli.

Il Karmapa morì il giorno seguente, sorprendendo i dottori per un’ultima volta. Quando il suo cuore cessò di battere, alla mattina presto, iniziarono subito la rianimazione e riuscirono anche a stabilizzarlo per mezz’ora; infine, comunque, la pressione arteriosa precipitò completamente e arrivò l’arresto cardiaco. I medici lo resuscitarono per altri quarantacinque minuti ma sul monitor era chiaramente visibile come il cuore cedesse via via e non rispondesse neanche alle iniezioni intracardiache dirette. I medici gettarono la spugna, dichiararono la morte e lasciarono la stanza.

Già clinicamente morto, il Karmapa riaccese le macchine a cui era attaccato. Quando il personale infermieristico tornò per estrarre il sondino gastrico un quarto d’ora dopo, vide sul monitor che la pressione del sangue era tornata a 140/80 e il polso era regolare. Il dottor Levy per poco non svenne tanto era lontano questo evento dalla sua sfera di esperienza. Uno dei Rinpoche più anziani gli diede una pacca sulla spalla in modo rassicurante dicendo: «È impossibile, ma è accaduto».

L’impressione era che il Karmapa, un’ora dopo che il suo cuore aveva infine smesso di battere autonomamente e quindici minuti da quando i dottori avevano gettato la spugna, fosse tornato indietro per vedere se il suo corpo potesse ancora portare la sua mente o meno. Tuttavia non sembrava abbastanza e neanche a morte avvenuta il Karmapa cessava di sbalordire i medici occidentali: quarantotto ore dal decesso la zona del cuore era ancora sempre calda e la sua pelle rimaneva liscia e morbida. Dato che la clinica in via del tutto eccezionale aveva dato il permesso di lasciare il corpo indisturbato nella stessa stanza, egli rimase in questo stato di assorbimento per altri due giorni, fino al momento in cui fu mandato in volo verso il Sikkim. Durante uno scalo a Londra, i suoi studenti adornarono la bara di zinco con dei fiori.

        Il “Re degli yogi”, il XVI Karmapa Rangjung Rigpe Dorje, “Diamante della verità ultima automanifestatasi”, aveva estratto dal cilindro alcuni miracoli al momento della morte anche nelle incarnazioni precedenti. Seguendo la tradizione, il Karmapa, che aveva completamente scosso i medici negli Stati Uniti giocando con le leggi della natura, quattro giorni dopo la morte clinica e il volo per metà dell’emisfero in una bara, continuava allegramente a compiere miracoli. Nell’arco dei quaranta giorni successivi – fino al 20 dicembre 1981 – fu capace, senza alcun disfacimento imputabile al caldo o alle tante lampade al burro, di far rimpicciolire il proprio corpo fino alla grandezza di cinquanta centimetri, un terzo dei quali era occupato dalla testa; quando lo vidi e gli dissi addio prima della cremazione era di un colore grigio scuro, però intatto e facilmente riconoscibile.

Il tipo di meditazione che il Karmapa usò mostra la realizzazione della sua mente. In tale condizione si può scegliere una delle tre pratiche che danno la possibilità di fondersi con lo stato di verità. Con il “tudam” (tu significa “cuore”, dam significa “legame” – quindi vuol dire che la mente rimane legata al cuore) scelto dal Karmapa, è possibile anche per un osservatore esterno capire che sta succedendo qualcosa di molto insolito al corpo, cosa che di certo regala molta fiducia nei confronti della forza della mente. Con questa meditazione, durante il processo della morte, ancoriamo la mente allo stato di verità e sperimentiamo la nuda consapevolezza. Il principio cosciente permane dunque nel cuore e, al contempo, diventa del tutto chiaro e illimitato. Lo spazio-consapevolezza dentro e fuori allora non è più separato, e sperimentiamo una forza enorme, una vastità senza limiti e atemporale. Qui, passato, presente e futuro si fondono senza sforzo nell’intuizione che è al di là del concetto di tempo. Da questo livello siamo capaci di rinascere in qualsiasi luogo per il bene degli esseri, prendendo innumerevoli corpi e aiutando ovunque gli esseri abbiano una connessione con noi.

        Quando il suo corpo fu cremato sul tetto a terrazza dell’edificio principale di Rumtek, con il panorama aperto sulla valle del Gangtok e la vista sugli ottomila della parte orientale dell’Himalaya, c’erano due arcobaleni circolari intorno al sole. Il cuore del Karmapa rotolò fuori dal forno fino a raggiungere Lopon Tsechu Rinpoche che si trovava dirimpetto a noi intorno allo stupa che bruciava.

La vita e la morte del XVI Karmapa furono la prova ultima della ricchezza e delle possibilità della mente inerenti a ognuno. In Occidente, il suo esempio rimane il motore per i miei studenti e per me. Gli auspici che abbiamo fatto assistendo a quella cremazione diventano realtà ancora oggi. 

Durante la sua assenza, la Via di Diamante è cresciuta e maturata in tutto il mondo. Oggi, la diciassettesima reincarnazione religiosa del Gyalwa Karmapa continua la trasmissione in buono stile. "



                                                                da "Morte e Rinascita" di Lama Ole Nydahl 

                                                                traduzione di M.S.